Cari amici della Frontiera, con il nuovo post ospitiamo un altro amico di Western Campfire: Mauro Fradegradi, scrittore, studioso e appassionato di letteratura e cinema western. In questo breve saggio Mauro fa ordine sugli aspetti meno visivi del genere western (americano e italiano/europeo) e ne illustra le parti dal punto di vista simbolico, mettendo a confronto i western d'oltreoceano con quelli italiani evidenziando i sostrati comuni a entrambi, gli archetipi di base, gli stravolgimenti strutturali e altri piccoli aspetti meno evidenti.
Buona lettura!
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Idee minime sullo Spaghetti Western
di Mauro Fradegradi
Il western, e meglio ancora lo Spaghetti-Western (SW) perché più brutale e antieroico, originale e rivoluzionario, indigenista e proletario, è il miglior paradigma delle vicende umane. La mimesi perfetta dell’emozionalità virile, scenario deputato alla rappresentazione dell’irrisolto maschile occidentale moderno. Il genere che da Griffith e Ford fino a Tarantino e Tommy Lee Jones, passando per Delmer Daves, Sam Peckinpah, Sergio Leone, Clint Eastwood e Kevin Costner ha raccontato l’uomo, il mondo e l’uomo nel mondo meglio di altre estetiche e di altre poetiche, trova nei suoi caratteri fondamentali i suoi referenti mitopoietici meglio adatti a tale rappresentazione. Il paesaggio, il mondo animale, la wilderness, i personaggi, le loro figure e le loro intertestualità, l’iconografia e la composizione scenico-semantica, la modulazione narrativa, i temi e i motivi prescelti, funzionano inizialmente come indicatori culturali di una mitologia atavica, condivisa e riconosciuta, mentre successivamente operano come connettori poetici e politici relazionando l’immagine finzionale con la nostra realtà, soprattutto con il nostro mondo interiore.
Il primo carattere di un western è il paesaggio. Nelle dune di sabbia bianca, simbolo di una purezza che non è di questo mondo, come nelle terre aride e piene di coyotes e avvoltoi, per non dire di bandidos senza scrupoli, ritroviamo i tratti dell’antieroe western che nel paesaggio si rispecchia. Vi trova i suoi limiti e le sue sfide, ma anche una proiezione del suo destino: incerto quanto solitario ed ostile. Questo paesaggio vasto e iconograficamente tanto affascinante quanto pericoloso, amplifica il carattere solitario e malinconico del pistolero. La bellissima immagine del pistolero che si allontana in groppa al suo cavallo lungo la linea dell’orizzonte è un’immagine instabile, di falso equilibrio. Qui, in questa istantanea che ben raffigura l’individualismo, vi troviamo la relazione tra l’uomo e il mondo. Il nostro antieroe, con il suo compagno e il suo cavallo, è un personaggio chiuso nella sua organica e malinconica solitudine esistenziale.
Personalmente credo che gli unici tre interlocutori della sua intimità siano:
- l’amico, a volte ambiguamente tratteggiato come un altro da sé, che può anche assumere i toni di un’amicizia virile che in alcuni casi rasenta l’omosessualità, inquadrando l’amicizia e la stima reciproca come un bellissimo rapporto d’amore;
- il cavallo, vero e proprio compagno di avventure e anche di sventure, nonché emblema di libertà selvaggia, irrefrenabile e indomabile, come di virilità e fecondità;
- la pistola infine, è simbolo di virilità la cui perdita segnerebbe la perdita di una virilità e di una potenza sessuale che per l’antieroe western sono a volte l’unico tesoro posseduto.
Se gli eroi western del cinema classico hollywoodiano erano integri moralmente e instauravano un ordine stabile là dove era assente combattendo contro i cattivi di turno tratteggiati amoralmente, quelli sporchi e individualisti dello SW, come del cinema western americano post-’63 - quello di Peckinpah, Siegel, Aldrich, Eastwood, Fonda, Hellman – erano invece antimorali e portavano disordine là dove il disordine magari già c’era. La loro antimoralità li eleva ad eroi tragici in diretta eredità esistenziale con i prototipi greci. Come dice Bazin, il western che nega la ricostruzione storica assume direttamente i caratteri epici della tragedia.
Se gli eroi di John Ford erano soliti esser ripresi dal basso come per farsi ammirare nella loro grandezza morale e mitologica, il prototipo dell’antieroe western, che è lo Straniero di Clint Eastwood in Per un Pugno di Dollari, entra in scena addirittura di spalle. Era il 1964 e Sergio Leone rivoluziona il genere. Questa infatti, è la prima e più grande rottura estetica con il passato che diventa anche rottura di contenuti, di immaginario e di intenzioni autoriali. Tant’è che quando parliamo di SW parliamo di un genere vero e proprio e non di una modalità italiana di fare i film sui cowboy.
Se gli eroi del western classico tendevano alla famiglia, alla casa, alla patria e all’ordine, come propaganda governativa voleva, gli antieroi dello SW tendevano al proprio individualismo, alla preservazione di una malinconia che permetteva loro di elevarsi all’eterno o meglio all’illusione di esso, senza scadere nelle convenzioni. Il cowboy tutto d’un pezzo che fonda il suo futuro sulla sua precedente vittoria, scenderà automaticamente a compromessi con il sistema. Lo Straniero o il Cuchillo o il Sartana di turno invece, seppur vincitori, andranno sempre per la loro strada, rifiutando la mitizzazione facile e scontata e preferendovi quella maledetta che amplifica la loro carica romantica di uomini primitivi. Eticamente primitivi, per dirla come Ernst Junger nel suo Trattato sul Ribelle. Perché la loro vera natura è una natura arrabbiata. La rivolta dell’individuo-pistolero è nichilista e senza causa, o apparentemente senza causa. Se ha una causa, è una causa individuale non collettivamente condivisa. Ed è qui che il nostro antieroe diventa Mito, perché veicola l’universo emozionale ed etico di un uomo, e non della massa che si uniforma.
Se gli eroi del vecchio western erano l’opposto puro ed integro dei cattivi che dovevano sfidare, tra gli antieroi del western revisionista italiano come americano e i loro cattivi non c’è una chiara e netta linea di demarcazione. Anzi, spesso e volentieri si assomigliano o addirittura si passano la palla l’uno con l’altro scendendo a patti tra di loro per poi farsi la pelle a vicenda, come insegna il leoniano Il Buono, il Brutto, Il Cattivo del ’66.
Ad oggi il genere western può essere raggruppato in tre macro-gruppi storici che a loro volta possono crearne di micro dai tratti distintivi. Abbiamo così:
- il western classico che tende a mitizzare non solo la nascita di una nazione, quella americana, quanto la nascita dell’uomo ideale ed esemplare nella sua integrità morale. Ed è il western sia delle “horse opera”, cioè il western della celebrazione, sia quello dei film anni ’50, ovvero quello della propaganda. È chiaro che esistono delle eccezioni.
- lo Spaghetti-Western da Sergio Leone in avanti, che ha decostruito il genere precedente risemantizzando gli eroi in antieroi e gli spazi da amorevoli in ostili, ha ricodificato non solo un genere ma tutto un approccio moderno dell’uomo nei confronti del mondo preferendovi una via provocatoria ed irriverente come antidoto ad un buonismo moralizzante, offensivo per la libertà dell’uomo. Nello SW vi troveremo l’eurowestern fatto da spagnoli, italiani e tedeschi prima del 1964 di Sergio Leone: film modellati sul western classico americano; il zapata-western – detto anche tortilla western – che tratta di situazioni e contenuti politici usando il teatro paradigmatico della rivoluzione messicana; il western-gotico, tipico nostro italiano, dove l’abilità nell’organizzare trame, figure, scenari e linguaggi tipici dell’horror veniva riutilizzata in contesto western sorprendendo nella riuscita di un prodotto straniante e perturbante. Ci sono poi film dichiaratamente epigoni di Sergio Leone, come quelli di Tonino Valerii, il migliore a riprendere la lezione leoniana; così come sono epigoni di Sergio Corbucci quei film che puntano tutto sull’estetica violenta e cruda di Django. Tra questi epigoni va detto che molti, riprendendo soprattutto la struttura a “triello” de Il Buono, il Brutto, il Cattivo ripropongono storie classiche, con scarso stile e poche idee registiche, restando comunque film pregni del segno ultimo del western, come i film di Demofilo Fidani e León Klimovsky. Dopo Lo Chiamavano Trinità arriva il western brillante, comico o addirittura demenziale (spesso senza volerlo), una vera e propria commedia-western che potremmo chiamare anche fagioli-western.
- in ultimo il western moderno che riprende il mito della frontiera e i vari archetipi classici riposizionandoli nella contemporaneità, risemantizzandoli alla luce dell’evoluzione culturale dell’ambiente.
Bisogna precisare anche cosa s’intende per western crepuscolare e revisionista. Non sono generi con cui poter classificare film, bensì elementi trasversali che attraversano i macro-gruppi prima citati incidendo sul loro stile e sulla loro poetica. Sono categorie di registro, categorie poetiche e stilistiche che di volta in volta personalizzano il tono dell’opera. Per esempio, Sfida Infernale di John Ford del 1946 è un western classico, Per Qualche Dollaro in Più di Sergio Leone del ’65 è uno Spaghetti-Western e Brokeback Mountain o The Three Burials of Melquiades Estrada, entrambi del 2005, sono western moderni, contemporanei. Oltre a questa classificazione verticale che crea categorie a sé troviamo una classificazione orizzontale cha attraversa le tre categorie madri. È qui che entrano in gioco i caratteri crepuscolari e revisionisti dei western che dalla fine degli anni ’60 hanno cambiato, e in molti casi stravolto, il Mito classico. Il tono crepuscolare è il tono della malinconia, della tristezza, del disagio e dell’inquietudine della consapevolezza che tutto s’è modificato, o peggio ancora, che tutto s’è corrotto. Muore la speranza. Muore il positivo. Muore la vitalità. Nascono invece il dubbio, il rancore, la solitudine. Ne sono manifesti film di epoche diverse come Sfida sull’Alta Sierra del ’63 di Sam Peckinpah e il pluripremiato Gli Spietati (Unforgiven) del ’92 di Clint Eastwood con Gene Hackman, nel cui personaggio, più che in quello di Eastwood, vi troviamo i caratteri essenziali della parabola crepuscolare dell’uomo eastwoodiano: ambiguità, disillusione, sconfitta. Anche i film di Leone hanno quel tono nostalgico, di quell’età dell’anima persa per sempre o che non abbiamo mai avuto e che vorremmo invece avere, tipica del crepuscolarismo. Titoli come C’era Una Volta il West e Giù la Testa… Coglione! ne sono l’esempio più chiaro.
Mentre invece, quando si parla di western revisionista, intendiamo parlare di quei film che rivedono il mito della frontiera. Non più i grandi eroi senza macchia e senza paura, simboli della morale americana, bandiere dei valori morali severi e intransigenti con cui si crede di creare e condurre una nazione. No. Rivedere il mito americano del cowboy vuol dire spostare l’asse critico insieme all’asse narrativo e immaginifico su ben altri punti di focalizzazione. Spostare quindi l’attenzione su desperados, bandidos, stranieri solitari e taciturni; farli muovere in uno scenario ostile, a tratti orrorifico, omofobico e inquietante; e soprattutto farli diventare degli antieroi in sostituzione all’eroe retorico di John Wayne. E va anche detto che pure John Ford trovò un non-eroe sostitutivo del monolitico Wayne: parlo del grande manniano James Stewart che sarà il simbolo, il significante, di tante ambiguità morali. Ford lo preferirà a John Wayne nella sua fase registica più matura e disillusa. Caso a parte per il gigantesco Henry Fonda che oltre ad incarnare l’eroe duro della frontiera come in Sfida Infernale, capolavoro fordiano del 1946, è un eroe/antieroe ancora più criptico, nella sua ambiguità, di Jimmy Stewart, come ne Il Massacro di Fort Apache del 1947, ne Ultima Notte a Warlock del 1959, Firecreek - L’Ora della Furia e C’era Una Volta il West del ’68, Uomini e Cobra del ’71 e infine nel nostro Il Mio Nome è Nessuno del 1972.
Nonostante il corpus western di John Ford sia di inestimabile valore anche per chi fa un “altro” western e la figura di John Wayne andrebbe rivalutata anche se solo in relazione al disegno autoriale più ampio dell’opera fordiana, non si può nascondere come quel cinema abbia influito sulla concezione del mito americano. Il cinema di Ford, e quindi anche i di lui eroi wayneiani, vanno oltre la loro prima lettura reazionaria e severa tipica del fondamento della nazione americana di cui prima si evidenziavano i limiti. Il suo cinema ha fotografato quella vita aspra e selvaggia con i toni dell’epica, una dimensione che manca oggi nella vita prosaica di ognuno di noi, ma alla quale tendiamo in numerosi sogni e progetti. Ford ha saputo celebrare il mito del cowboy ed evidenziarne i contrasti e le ambiguità. Suoi sono infatti quelle pellicole in cui si riflettono maggiormente i mali americani del mito western da lui stesso celebrato. Titoli come Sentieri Selvaggi, Il Grande Sentiero, L’Uomo che Uccise Liberty Valance, sono amari e disillusi, critici e senza secondi appelli. Revisionista sta quindi per quel western che rivede i codici fordiani e classici in generale, per adattare il mito della frontiera, che è un archetipo del viaggio, della formazione, e via dicendo, alla contemporaneità e ai dubbi e alle inquietudini dell’uomo moderno. Ecco che revisionisti saranno quei western che hanno riaperto il dibattito indianista prendendo palesemente le difese dei nativi americani come Soldato Blu e Piccolo Grande Uomo, entrambi del ’70, anche se già L’Amante Indiana del 1962 e addirittura Blazing Trail del 1912 proprio di John Ford, e oggi perso, avevano preso le difese del popolo indiano. Anche Leone demitizzando l’eroe classico opera una revisione che si riflette anche nell’estetica e nel linguaggio. Il Mucchio Selvaggio di Peckinpah segue a ruota la demitizzazione leoniana e porta l’estetica della violenza a parossismi mai gratuiti e pieni di poesia. Così, il western revisionista e crepuscolare, sia leoniano che peckinpahniano che eastwoodiano, e perché no anche costneriano e jonesiano, è un western in cui lo sguardo dell’autore è una lucida osservazione della corruzione delle certezze e dei valori, che ci fornisce una visione distaccata e “spietata” della società contemporanea.
Tra antieroi vincenti e perdenti, tra paesaggi ostili che sono specchio dell’anima del pistolero errante e vagabondo, tra un’iconografia provocatoria, dura e a tratti sadica, tra il ribaltamento ideale del Mito e la sua demistificazione che passa poi a nuova mitizzazione, o anti-mitizzazione, ci lasciamo sedurre dal fascino dello SW. Ma grazie proprio a questo suo fascino rivoluzionario siamo in grado di apprezzare ulteriormente e con più attenzione il western classico americano, non solo perché oppositivo a quello spaghetti, ma perché contenitore di archetipi e altrove intimi immortali.
Va detto, infine, che la famosa trilogia del dollaro di Sergio Leone - Per un pugno di Dollari (1964), Per Qualche Dollaro in Più (1965), Il Buono, il Brutto, il Cattivo (1966) – nonostante le tante giuste rivalutazioni di altri autori nostrani con i loro preziosi apporti, come l’iperviolenza e il crudo realismo di Sergio Corbucci - l’iperrealismo era già di Leone -, il rifondismo leoniano di Tonino Valerii, la rivoluzione grammaticale di Gianfranco Parolini, ecc., quella di Leone rimane la trilogia codificante del western all’italiana. A questa va unita quella che Roberto Donati chiama la trilogia del tempo, sempre di Sergio Leone - C’era Una Volta il West (1968), Giù la Testa... Coglione! (1971), C’era Una Volta in America (1984) – in quanto trilogia che codifica la dimensione esistenziale del cinema western che da “brutto, sporco e cattivo” si fa “crepuscolare”.
Ed è poi da qui che arrivano i recenti Balla Coi Lupi e Gli Spietati, per non parlare dei western di Clint Eastwood degli ’80, e i precedenti di Peckinpah dei ’60-’70. Ed è da questa nuova trilogia che si muovono le ulteriori considerazioni sullo SW e sul western in generale. Teoricamente il western è un genere nostalgico per definizione, perché ricrea un’epopea scomparsa. La nostalgia, dopotutto, è il desiderio feroce di riappropriarci di una condizione passata, o comunque di aspirare ad uno stato esistenziale diverso dall’attuale, migliore, ma che purtroppo a causa dei limiti della realtà e della società tutta ci risulta lontano ed irraggiungibile.
È così che mi piace immaginare il mio posto personale nel palcoscenico della vita/frontiera: quello di un pistolero solitario, con le sue aspirazioni più alte e con i suoi sentimenti taciuti, in continua lotta con i rigidi limiti della realtà che va verso il sole portando con sé tutta la verità del mondo.
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