giovedì 7 febbraio 2013

Intervista a Gianfranco Manfredi e Valerio Evangelisti, di GabrieleBattaglia

Abbiamo trovato questa intervista a Gianfranco Manfredi e Valerio Evangelisti sul West e sul western, storico e letterario. Vogliamo ripubblicarla qui perché ci sembra una bella testimonianza – perdipiù di due autori bravissimi – che sarebbe un peccato perdere nei meandri del web.

L’intervista è di Gabriele Battaglia, pubblicata nel 2004 su Virgilio.it. La riproponiamo qui su Western Campfire insieme ai link originali, con la disponibilità a rimuoverla qualora gli aventi diritto lo chiedessero. Non è stata operata nessuna modifica al testo, sono stati solo "tagliati" i link ad altre pagine web, tra l'altro quasi tutte non più attive.

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intervista di GABRIELE BATTAGLIA
tratta da http://sapere.virgilio.it/extra/064/intervista02.html



IL "VECCHIO" WEST


Ovvero quello che eravamo abituati a conoscere attraverso le tradizioni di Hollywood e dello Spaghetti Western. Chiediamo a Gianfranco Manfredi e Valerio Evangelisti di descrivere questi modi di raccontare la Frontiera americana, di spiegarcene il significato e di illustrarci che cosa hanno significato per gli amanti del genere.


Il West della tradizione di Hollywood: quali sono le incongruenze storiche e perché si usava raccontare così?

Gianfranco Manfredi - I Western degli anni 50 e 60 che hanno codificato il tipico villaggio di frontiera con i suoi personaggi istituzionali (lo sceriffo, il giudice, la maestrina, il proprietario del saloon, il reverendo, il boss locale spesso anche sindaco) più che il West storico, rappresentavano la tipica provincia americana degli anni 50. Nel West la maestrina, per esempio, non esisteva e il più delle volte neppure lo sceriffo. Insomma, era sbagliato sostenere che un film come "Il Selvaggio" con Marlon Brando fosse un Western moderno.
E' vero il contrario: il West era la proiezione in un passato inventato della provincia americana degli anni 50 e delle sue contraddizioni. Attraverso questa "invenzione" si potevano tra l'altro mettere in scena conflitti (anche razziali) che sarebbero apparsi sconvenienti, in pieno periodo maccartista, se rappresentati nella loro attualità. Così facendo però, certe caratteristiche storiche dei villaggi di frontiera sono state cancellate. Se si visitano le superstiti ghost town, è facile scoprire che in quasi nessuna manca, ad esempio, il Masonic Temple, cioè il tempio della massoneria, spesso l'edificio più eminente della città. Ora: si è mai parlato di massoneria nei film Western? Non è significativa questa censura storica? Mi sono sempre chiesto se questo tema risultasse estraneo alla cultura americana degli anni 50 oppure se lo si volesse occultare di proposito. Ci sono legami indubitabili tra la massoneria e la nascita di organizzazioni come il Ku Klux Klan o i Cavalieri del Cerchio d'oro, organizzazioni anche queste molto ambigue nel senso che riunivano motivazioni diverse e complesse: non solo razzismo e segregazionismo, ma anche istanze "democratiche" e autonomistiche. Il suffragio universale e in particolare il voto alle donne è figlio del West, non delle grandi città dell'est. Questo tipo di conquiste nascevano dalla struttura comunitaria del villaggio di Frontiera e del ruolo importantissimo che vi esercitavano le donne, e non sarebbero state possibili senza il benestare dei circoli massonici che funzionavano nei villaggi di frontiera come dei Rotary Club in cui la borghesia maschile cittadina (il medico, i negozianti) si incontrava e prendeva decisioni. Questa complessità è al centro di un classico come "Nascita di una nazione" di Griffith, ma misteriosamente non sembra aver lasciato molte tracce nel cinema americano successivo (anche se traspare in alcuni film di John Ford).

Valerio Evangelisti - Sono totalmente d'accordo con Gianfranco. Aggiungo che del Far West si è fatto, arbitrariamente, un luogo immaginario, collocato in un'epoca immaginaria, in cui gli attuali Stati Uniti avrebbero preso forma. Cosa completamente falsa: gli Usa attuali venivano forgiati sì nel West, ma anche e soprattutto a New York, a Filadelfia, a Chicago. Per disegnare una mitologia artificiale, il Far West è stato estratto dal tempo come una specie di bolla, e spostato in uno spazio a se stante, in modo che ciò che accadeva a Dodge City non sembrasse più coevo a quanto avveniva, che ne so, a Chicago o a Detroit. Ho l'impressione che, se si chiedesse all'utente comune dei mezzi di comunicazione di massa, quando abbia preso avvio l'industrializzazione americana e quando Wyatt Earp abbia affrontato i Clayton a Tombstone, sposterebbe le due cose su piani temporali differenti, mentre si tratta di eventi coevi.
Per operare una mistificazione simile, si sono alterati in maniera sistematica e programmatica tutti i dati reali. Comuni vaccari sono stati travestiti da eroi ben sbarbati e dall'abito lindo, l'uso o il porto di una pistola sono divenuti parte del comportamento e dell'abbigliamento Western d'ogni giorno (non che i revolver non ci fossero, ma, per dirne una, erano inaccessibili alle tasche dei più), l'allevamento del bestiame è stato promosso a motore di tutta l'economia. L'origine sanguinosa di un intero paese, rintracciabile nella guerra civile e negli eventi drammatici che la precedettero, si è vista ridotta a modeste dinamiche di villaggio, con vendette locali, autorità locali e modeste storie d'amore. Il West entrato nell'immaginario di tutti noi non è più credibile della Palestina raffigurata dalla pittura sacra rinascimentale.
Ciò che vi è di grave è che, dispersa nella favola la nozione di come gli Stati Uniti si siano formati, diventa più difficoltoso giudicare gli Stati Uniti quali sono oggi.


La vostra generazione ha cresciuto il suo amore per la storia americana in parallelo al grande successo del "Western all'italiana". Volete spiegarci il significato profondo che ha avuto per voi questo genere?

GM
- Il Western spaghetti è inseparabile dagli anni 60/70. Anche qui c'erano due tendenze differenti, anche se non direi opposte, perché a volte riunite nello stesso regista.

Prendiamo Sergio Corbucci (che non era certo un sessantottino): in "Django" usa un west di pura rappresentazione. E' un film shakespeariano, come è stato notato dalla critica. C'è la stessa violenza del Macbeth , una violenza che attraversa ed è oltre la Storia, quasi Metafisica. In "Vamos a matar companeros" invece, l'oggetto é la Rivoluzione. Tuttavia anche qui non c'è vero realismo. Il personaggio di Jack Palance (ennesima incarnazione del tiranno con falcone) è puro codice avventuroso.
Lo stesso si può dire del cinema di Sergio Leone o di quello di Sergio Sollima. La nostra generazione (come pubblico) intendeva il Western come "cinema politico", ma insieme si sottraeva a un vero esame della Storia che ci avrebbe causato non pochi imbarazzi.
Prevaleva il sogno avventuroso di considerarsi "fuorilegge" più che l'esame (lucidissimo in Peckinpah) di come, nella Storia, la ribellione "esemplare" rappresenti non tanto l'alba radiosa di tempi nuovi, quanto il "crepuscolo" eroico di chi (il più delle volte) è votato alla sconfitta.

VE - Fermo restando che la Storia con la S maiuscola rimane fuori sia dal Western all'italiana che da quello classico americano, il primo ha dalla sua un grande merito: l'abolizione di ogni forma di moralismo. I suoi "eroi" non sono tali (parlo qui del "grande" spaghetti Western, non della paccottiglia degenerata in Trinità e affini), e ciò che li muove è, inizialmente, la pura avidità. Cavalcano tra villaggi precari e fangosi, entro scenari magari soleggiati ma sostanzialmente cupi. Vivono storie dal lieto fine apparente: nell'ipotesi migliore dà luogo ad altre peregrinazioni, nel peggiore sfocia in tragedia (ipotesi estrema, quella de "Il grande silenzio" di Sergio Corbucci, in cui nessuno sopravvive, nemmeno il protagonista).
Mai l' "happy America" aveva ricevuto uno schiaffo così sonoro. Tutta la mitologia che aveva elaborato finiva a gambe all'aria. Per di più, da quel momento la stessa Hollywood ha dovuto cambiare linguaggio, per ciò che riguarda il genere Western, e ridimensionare i propri intenti propagandistici. Lo si vede bene nei film girati in America da Clint Eastwood, e non solo in quelli.
Per di più, i confini stessi, geografici e temporali, del Far West su impulso italiano si sono allargati, fino a comprendere il Messico rivoluzionario dei primi del '900. Non dimentichiamoci che "Il mucchio selvaggio" di Peckinpah è venuto dopo "Quien sabe?" e "Tepepa".
Insomma, non soltanto il Western italiano ha fatto scuola sotto il profilo stilistico, ma, almeno per un certo periodo, ha costretto gli americani a riesaminare con sincerità storia e miti che li alimentavano. Ciò mi pare di valore inestimabile, sotto il profilo tanto artistico che ideologico. 



LA NOSTRA FRONTIERA


Nel vostro racconto dell'America, quali elementi inediti sentite di avere introdotto?

Valerio Evangelisti - Per quanto mi riguarda, nessun elemento inedito, salvo il mettere in correlazione fatti che appartenevano a immaginari separati. Tutto questo, però, non a fini di ricostruzione storiografica, quanto per scombussolare rappresentazioni statiche e ingessate, introiettate dal pubblico. La stessa funzione, insomma, che prima attribuivo agli "spaghetti Western".

Gianfranco Manfredi - Nel mio fumetto Western cerco di sottolineare l'aspetto "visionario" (e non solo della cultura indiana, ma anche di quella dei conquistatori e dei colonizzatori) perché la narrazione storica secondo me non va intesa solo in termini di scrupolo documentario. Per esempio io credo che nei film di Fellini "Satyricon" e "Casanova" , puramente onirici se si vuole, ci sia molta maggiore fedeltà allo spirito della Roma Pagana e a quello del Settecento, che in molti film di puntuale e pignola ricostruzione d'epoca. Nel "Fellini Satyricon" c'è una scena impressionante: lo scenografo usa come sfondo i giganteschi Budda nella roccia che i talebani hanno bombardato oggi e che all'epoca del film erano invece ancora intatti. Ma Fellini e lo scenografo, stilizzandoli, li rappresentano già come sagome da poligono da tiro. Si ha così l'impressione di entrare in una zona (una Twilight Zone) dove visione del passato e visione del futuro si incrociano miracolosamente (o meglio: inconsciamente).
La visionarietà è sempre a doppio senso: è il nostro modo di figurarci il passato, spesso anticipatorio del nostro futuro, ed è il modo in cui il passato raffigurava se stesso e il proprio futuro.
Non si può raccontare la Storia rimuovendone l'aspetto più misterioso che si può compendiare nella cosiddetta "eterogenesi dei fini": cioè gli agenti del processo storico (classi, popoli, individui) si propongono scopi che poi il divenire delle cose stravolge. Ma allo stesso tempo il modo che gli umani hanno di prospettarsi dei fini, cioè di "vedere il proprio futuro" è rivelatore, sia quando è illusorio, sia quando è anticipatorio. La "visione" non è un progetto coerente, ma uno scenario eterogeneo. E' un discorso troppo complesso da liquidare in poche righe, ma si tratta come ha giustamente sintetizzato Valerio, di unire fatti appartenenti a "immaginari separati". "Fatto", "evento", sono anche "parole". Il linguaggio (narrativo, figurativo, simbolico)è costituente dei "fatti" tanto quanto i "fatti" sono generatori di linguaggio.


La magia è un tema che vi accomuna. Gli Stati Uniti sono veramente così "magici"? Lo chiedo perché, oltre alle vostre opere, mi viene in mente anche "American Gods" di Neil Gaiman; un romanzo ambientato in un'America contemporanea e immaginaria, impregnata di magia e misticismo.


VE - Nel mio caso, il fatto che Pantera pratichi la magia sta a segnare la sua distanza dal contesto culturale che lo circonda. In apparenza americano fino al midollo, in quanto personificazione di un individualismo continuamente esibito, Pantera però non aderisce alla razionalità (vera o presunta che sia) capitalistica che sta impossessandosi del mondo che lo circonda.
La pratica magica è dunque in lui un segno di identità e di differenziazione, almeno quanto il colore della pelle. Per questo non è tanto necessario che poi i suoi poteri li eserciti davvero (alcuni lettori mi hanno rimproverato che, a differenza di quanto avveniva in "Black Flag", in "Antracite" la stregoneria di Pantera è un dato platonico e supplementare rispetto agli eventi). Basta che li coltivi.
Ho l'impressione che nelle storie di Gianfranco avvenga quasi la stessa cosa. Magico Vento è sì uno sciamano, però non sempre questa sua natura risulta essenziale allo scioglimento della vicenda. Lo sciamanesimo è anche qui, come lo interpreto io, un segno di identità aliena. Sbaglio?

GM - No, non sbagli. Mi ripugnava l'idea di usare la magia in termini funzionali, cioè come una sorta di superpotere che l'eroe utilizza quando altri strumenti convenzionali vengono meno.
Magico vento non "usa" la magia. La magia come risorsa che si mette in campo per risolvere una situazione è trucco o espediente, cioè magia "bassa". La magia "alta" è invece qualcosa di estraneo che "possiede" l'eroe , non è posseduta dall'eroe, e se a volte contribuisce a fargli superare delle difficoltà, altre volte invece lo mette in difficoltà maggiori. E' vero quanto dice Valerio che si tratta di un segno di identità e di differenziazione culturale, ma è "identità aliena" nel senso più compiuto, cioè nel senso dell' "alienazione", e non lo dico in un'accezione negativa. Nella cultura indiana , il "folle" ( l'alienato) era sacro, era l'uomo trasparente agli spiriti.
Quando dico questo, mi viene in mente la notevole espressione di Carmelo Bene: "Sono apparso alla Madonna". E' una bellissima definizione della trasparenza spirituale. Magico Vento appare al suo Spirito Guida, lo sciamano Cavallo Zoppo, tanto quanto Cavallo Zoppo appare a lui.
Alla mentalità moderna ciò ripugna. Non è un caso, ad esempio, che la Chiesa Cattolica abbia ripreso a celebrare i santi che "fanno i miracoli" (Padre Pio) mentre mai come in questa epoca ha oscurato e dimenticato i mistici. I mistici non sono "utili", né "funzionali". Tra il misticismo, l'orgasmo e le droghe c'è una parentela molto stretta e questo spaventa l'istituzione. Le visioni di Dante nel Paradiso sono parenti strette delle visioni dell' LSD e delle estasi creative: Lucy In The Sky With Diamonds. Pura trasparenza spirituale. (Ovviamente nessuno pensi che nel mio fumetto io ambisca a tali altezze, mi limito a lasciare qualche segnale. D'altronde ritengo che qualsiasi opera creativa, nel suo nascere e nel suo sviluppo, abbia a che fare con la mistica, anche quando all'apparenza la rigetta).


Alcuni storici rintracciano nell'"irrazionale" quelle tracce di culture alternative che sono state cancellate per disegnare la società così come la vediamo oggi. Avvertite un'affinità con il vostro lavoro?

GM - Prima di poter parlare di "irrazionale" bisognerebbe ridefinire cosa si intenda per "razionale". Come ha giustamente osservato lo storico canadese John Ralston Saul nel suo saggio "I bastardi di Voltaire" (Bompiani) l'idea di "ragione" nasce con la minuscola: si intende per ragione uno strumento tecnico utile a separare l'elaborazione "fantastica" e "ideologica" dei fatti, dall'esame critico dei fatti stessi. Con Robespierre e Napoleone la Ragione acquisisce la maiuscola (e anche un carattere Spiritual-Divino o meglio idolatrico: la Dea Ragione). La Ragione diventa supremo meccanismo ordinatore e regolatore e finisce per identificarsi con la Ragion di Stato che opprime e soffoca le diversità culturali in nome di una presunta e a-storica Verità Suprema che è poi la stessa (in abito laico) delle Grandi Religioni che si presumeva di voler combattere. Così, in romanzo, io ho sempre trovato deludente l'impostazione laicista di Umberto Eco (erede di certo conservatorismo manzoniano) che usa il mistero per attrarre "il popolo" dei lettori, ma poi lo svilisce a barzelletta (il piano di una setta segreta secolare è in realtà una lista della spesa. Questo genere di ironia è mutuato direttamente dall' "Abbazia di Northanger" di Jane Austen , ma un conto è ironizzare sui tremori virginali e adolescenziali e come critica del romanzo nero alla Radcliffe, imperante all'epoca. Tutt'altro conto è sposare questa ironia nel contesto di una letteratura razionalistica dominante). Si mantiene, in Eco, un'idea elitaria (e anche un po' pedante) della cultura (borghese) che considera con paternalistica condiscendenza la storia "orale" e leggendaria della letteratura popolare, come un adulto guarda ai bambini. Eco è l'autore più anti-leopardiano che si conosca: per Leopardi (che alla ragione ci teneva, eccome) ogni svelamento del Mistero corrispondeva a un allargamento dell'area del Mistero, non alla sua ridicolizzazione. E' il Mistero a garantire la sopravvivenza della critica. E' il Mistero l'oggetto vero della narrazione. Il suo disvelamento spesso (questo è chiarissimo nella narrativa poliziesca) è solo un espediente rassicurante e consolatorio per ricondurre all'ordine il disordine delle cose e la libera (e rischiosa) elaborazione dell'immaginazione.

VE - Francamente non saprei cosa rispondere. Le nozioni di "razionale" e "irrazionale" sono vaghe, tanto che Jung ha saputo trovare basi razionali persino alla magia. Ciò che mi riesce insopportabile è l'ipotesi di meccanismi logici che non prevedano alternative e ne neghino la possibilità. Ricordo un articolo incredibile de Le Scienze in cui veniva presentata come "obbligata" dalla ragione e dalla storia l'adozione di politiche ultraliberiste in Polonia, per quanta miseria potessero generare. Penso che sia a fronte di simili mistificazioni della ragione, espressione di Pensiero Unico, se culture minacciate di estinzione si aggrappano alle loro forme più antiche. Lo fanno gli zapatisti messicani e lo fa il mio Pantera. Il bersaglio non è però la razionalità in sé, bensì quella sua forma assolutistica che spaccia scelte ideologiche per scientismo. Altro non saprei aggiungere, e non so nemmeno se ho davvero risposto alla domanda.


Un altro elemento che avete in comune è la forte sensibilità politica. Che senso hanno, da questo punto di vista, le vostre ricerche e le vostre storie?

VE - Personalmente sono poco interessato alle prese di posizione direttamente politiche, e molto, invece, al ristabilimento di una visione critica e conflittuale del reale. La narrativa popolare può avere un compito da svolgere, in questo senso. Ricordo tuttora gli esiti formativi che ebbe su di me la fantascienza detta sociologica prevalente un tempo, che affrontava il presente (mascherato da futuro) con gli strumenti della satira e del paradosso; oppure la scoperta relativamente recente del genere noir, il più impegnato, oggi, in una lettura approfondita del reale. Il mio sforzo, malgrado una fedeltà a questi esempi solo saltuaria, è di indurre il lettore al dubbio, all'inquietudine o all'interrogativo. Magari costringendolo a identificarsi suo malgrado con un inquisitore schizoide che è l'incarnazione stessa dell'autoritarismo e dell'intolleranza, oppure presentandogli pagine di storia americana capaci di incrinare la visione che gli è stata inculcata di quel paese, proposto a modello per l'intero Occidente. Le mie velleità politiche non si spingono oltre queste suggestioni, perché non sono io a dovere formulare alternative plausibili a ciò che esiste.

GM - Ho opinioni politiche molto nette e mi sforzo di renderle concrete ed evidenti nella mia vita quotidiana oltre che nell'impegno pubblico, ma per nulla al mondo forzerei i miei personaggi a fare da veicolo delle mie opinioni. I personaggi hanno una loro vita e dei loro contrastanti "punti di vista". Il bello dello scrivere è potersi e sapersi aprire alla molteplicità. Chi invece si rinchiude nell'io, intenso nel senso più limitativo e cioè "la mia attuale e condivisa esperienza", è in genere uno scrittore superficiale. Alice attraversa lo specchio, non sta mica lì davanti a bearsi della propria immagine.


Magico Vento e Pantera impongono più o meno consapevolmente il Bene sparando. Avverto parecchie analogie con la recentissima storia Usa. Ci avete pensato?

GM - Più che per il "Bene", Magico Vento combatte in nome di un popolo (un popolo che lui ha acquisito per scelta, non per condizione di nascita). Al contrario di Tex, MV non spara per un senso innato o del tutto personale di Giustizia ("la Legge sono io"), spara semplicemente perché vive in un mondo dove si spara e lui non è diverso dagli altri. L'unica diversità (non irrilevante) è che lui spara meglio.
Ma MV non considera questa sua qualità come una virtù, solo come un fatto, su cui non fa piangine (quanta gente ho dovuto ammazzare!), né di cui inorgoglirsi: proprio perché sa sparare, non ha bisogno di vantarsene, anzi se può, se se la sente, se riesce a far argine alla sua stessa emotività, ne fa volentieri a meno. Ci sono storie (come "Fango") in cui MV non spara un solo colpo, e questo è un fatto abbastanza raro per un Western.
Sergio Leone sosteneva che "non c'è Western senza duello", che cioè nella mentalità americana, tutto alla fine si risolve in duello mortale (il più delle volte uno contro uno). Per MV, il duello risolve solo una situazione immediata, ma poi conduce inesorabilmente ad altri duelli. E il duello non è mai uno contro uno, è la lotta per la vita. E lui sta dalla parte di chi lotta per sopravvivere, non per eliminare gli altri o per stabilire l'ordine e la legalità o il proprio dominio sulla parte avversa. Non è una differenza da poco. MV non è uno sbirro.

VE - Pantera aderisce invece alla tipologia del vendicatore. E' una macchina di morte, tuttavia dotata di una sensibilità che ogni tanto emerge e ne incrina la funzione. A lui, del Bene, in teoria non importa nulla. Devono accumularsi sotto i suoi occhi parecchie porcherie prima che lui scelga, quasi controvoglia, da che parte stare. E comunque non lo direbbe a nessuno: lo stesso suo pensiero ci è praticamente ignoto.
Dato questo atteggiamento, il parallelo con le azioni più recenti del governo degli Stati Uniti non funziona. Pantera non ricorrerebbe mai e poi mai a pretesti ipocriti per esercitare la violenza. Fuor di metafora, non attribuirebbe al nemico che vuole uccidere il possesso di "armi di distruzione di massa" o simili, per lavarsi la coscienza. Non cerca alibi per il suo mestiere. Persino i suoi scatti di generosità sono in gran parte immotivati.
Se Pantera si imbattesse in Magico Vento, probabilmente lo rispetterebbe e magari si troverebbe anche a combattere al suo fianco, se le circostanze lo imponessero. I due, però, non diventerebbero mai amici; anzi, non si comprenderebbero nemmeno, tanta è la loro diversità. Pantera è un solitario che ha come referente solo il cupo universo dei suoi dei, né buoni né cattivi. 



STORIE NASCOSTE


Il West è anche e soprattutto "storia" e il genere Western è quindi anche il racconto di un momento specifico dell'epopea americana. Vediamo in che modo si può affrontare oggi la narrazione storica, attraverso gli strumenti della cultura popolare rappresentata da romanzo di genere, fumetto e cinema.


Immaginiamo che qualcuno volesse indagare i filoni nascosti dell'epopea statunitense. Quali storie, aneddoti, curiosità gli vorreste segnalare?


Valerio Evangelisti - I libri reperibili in Italia sarebbero troppo pochi, gli aneddoti troppi. Segnalo solo un episodio che trovo particolarmente emblematico, e che cito sempre: lo sciopero generale dei cowboys del Texas del 1883. Fu una battaglia sindacale durata mesi, parzialmente vittoriosa. Sfido a trovarne traccia in qualsiasi film; eppure parliamo di Texas, di cowboys e di un anno pienamente collocato nell'epopea Western. Basterebbe questo a sfatare molte immagini che ci sono state inculcate di quel periodo e dei suoi personaggi.
Non intendo però aiutare chi voglia indagare sull'episodio. Se è seriamente motivato, deve trovarsi le fonti da solo. Avverto che non sarà tanto facile, e del resto non lo sarebbe nemmeno negli Usa.

Gianfranco Manfredi - A un lettore curioso, vorrei segnalare l' autobiografia del generale Crook (purtroppo non disponibile in italiano) che è un testo esemplare per capire come siano nate le tattiche e strategie militari americane dei confronti delle popolazioni indigene (Apaches, Sioux). Queste strategie sono ancora il fondamento della politica militare degli Stati Uniti ad esempio in Afghanistan e in Iraq.


Mi pare che nella più recente letteratura d'intrattenimento ci sia una forte riscoperta del romanzo storico condito da elementi di thriller o crime-novel. Come lo spiegate?


GM
- I gialli peplum [film storico in costume, ndr] e in generale tutti quelli ambientati prima dell'ottocento, sono pure assurdità. Solo nell'epoca dell'Inquisizione (in questo Eco ha perfettamente ragione) si può trovare un parallelo alla figura moderna dell'investigatore.

VE - Nella maggior parte dei casi, il giallo storico è un giallo normale, trasferito in un contesto suggestivo e colorito. Non attribuisco molto valore a quei tentativi, a parte una vaga funzione pedagogica (tipo quella assolta a suo tempo da "Sinuhe l'egiziano", "Marco il romano" e romanzi simili). Di Eco ovviamente non parlo, perché chiaramente scrive "Il nome della rosa" con intendimenti più ampi. Ellis Peters, col suo Cafdael, cerca se non altro di illustrare le forme di pensiero medioevale (ma trovo le sue storie noiosette). I restanti autori - quelli che conosco - restano al di sotto di questi due esempi, e soprattutto del primo. Io mi chiamo fuori della categoria. Mi sembra evidente che le storie di Eymerich non tentano nemmeno una descrizione realistica del medioevo (fin dai dialoghi), ma cercano piuttosto di calare in quello scenario problematiche contemporanee, facendole poi esplodere nel presente. Per questo ho scelto, programmaticamente, la via del fantastico invece di altre.


Fiction e fumetto alle prese con la storia; come si lavora?

GM
- Dopo anni di rimozione, il cinema ha ricominciato a raccontare la Storia, da un lato recuperando la tradizione della cartapesta (aggiornata via computer), neo-peplum incluso, dall'altro con un'attenzione documentaria estrema (Scorsese). Anche nella letteratura (che ha preceduto questo fenomeno) le due linee sono ben visibili: il passato visto come cornice coreografica per raccontare in realtà storie sostanzialmente moderne nel loro svolgimento e nel linguaggio (i faraoni che parlano di "inconscio"); e il passato visto invece nella sua radicale diversità dall'oggi che però illumina l'origine di molti problemi contemporanei.

A volte i due atteggiamenti si incrociano, ma in sostanza sono opposti. A mio parere il primo filone è sostanzialmente reazionario, nel senso che pretende di omologare a sé le culture del passato, come se la nostra cultura, in quanto successiva, fosse di per sé Superiore e Riassuntiva (vecchia idea Hegeliana). Cos'è questo se non un modo di respingere le "culture diverse" e non assimilabili al Pensiero Unico, e insieme di proclamare la nostra realtà e il nostro modo di vita come unico orizzonte possibile? Un esempio perfetto è "Il Gladiatore" di Ridley Scott. Il pubblico del Circo Massimo in questo film è spettatore passivo esattamente come il pubblico televisivo. In "Spartacus" di Kubrick la rivolta dei gladiatori innescava la rivolta popolare. Nel "Gladiatore" tutto si risolve in un modesto riassetto interno del potere, celebrato di fronte al pubblico che vive tutto ciò come spettacolo (e vince una matrona romana interpretata da Connie Nielsen, cioè una modella vichinga). Non dico che questa metafora non rappresenti (parodisticamente) la nostra realtà attuale, ma perché proiettarla (ridicolmente) sulla storia romana?
Quando invece, come ad esempio in "Gangs of New York" di Scorsese si racconta come una giusta rivolta popolare (contro la leva obbligatoria) sia stata anche una sentina di brutalità, razzismo e intreccio tra poteri pubblici e poteri criminali, si sconfiggono di colpo due luoghi comuni: quello "di sinistra" secondo cui le masse ribelli hanno sempre ragione, e quello "di destra" che separa sempre il Potere dalla Società, identificando nel primo la custodia della Legalità (e il conseguente uso della violenza per Motivi Superiori) e dissolvendo la seconda in cittadini-individui alle prese puramente con problemi e scelte morali personali.
In altre parole: nel caso di Scorsese il passato si rivela non come specchio distorto della contemporaneità, ma come fondamento (critico) della contemporaneità.
Alcuni lettori del romanzo "Antracite" di Evangelisti con i quali mi è capitato di parlare, mi hanno rivelato, un po' smarriti, che pur essendo rimasti attratti dal suo romanzo, si sono persi nell'individuare le motivazioni politiche delle varie tendenze in campo, così oscure e mescolate da non poter dar luogo a una separazione chiara ed evidente tra buoni e cattivi. Questo dei lettori è del resto l'atteggiamento stesso di Pantera, come mai molti non se ne sono accorti? Gli stessi lettori, d'altro canto, se venissero interrogati sull'attuale guerra contro Bin Laden & company, sarebbero egualmente disorientati, perché a tutti è ovvio che essa non può rientrare in una comoda classificazione di classe, né di destra/sinistra, né tantomeno di male/bene. Questo è dunque il valore del romanzo di Evangelisti, a mio avviso: i fantasmi del passato riaffiorano. I fantasmi ci appaiono come creature diverse e insondabili. Ma ci vuol poco a renderci conto che se sono apparsi a noi è perché sono "i nostri" fantasmi. Ci raccontano la nostra stessa origine che avevamo dimenticato e preferivamo ignorare. E la nostra origine è diversa da quella che avevamo preferito raccontarci o sentirci raccontare dal Potere e dai Vincitori. E' Storia Altra.

VE - Credo che uno degli elementi fondanti e vincenti degli attuali assetti del potere (in Italia e nel mondo) sia la cancellazione della memoria storica. Non per sostituire a essa memoria falsa (il revisionismo funziona solo fino a un certo punto), quanto per fare perdere di vista il nesso tra causa ed effetto; di modo che l'esistente appaia come "non generato", e dunque privo di alternative. A fronte di ciò, una possibile reazione è affidata a chi opera nel campo dell'immaginario: se gli storici, immersi fino al collo nell'ideologia corrente, non fanno il loro dovere, la parola può e deve passare ai narratori. E' già successo, in epoche diverse.
Gianfranco cita un esempio secondo me emblematico: "Gangs of New York" di Scorsese. Il regista cerca di restituire al presente radici dimenticate, in questo caso inquietanti. Non che la ricostruzione sia priva di ambiguità. Chi conosce gli eventi narrati nel film sa bene che il ruolo delle gangs, in Scorsese dipinte un po' troppo con i colori de "I guerrieri della notte", fu meno determinante di quanto appaia nella pellicola, e che la rivolta contro la leva fu in gran parte opera di classi lavoratrici alla ricerca di una loro embrionale identità. Questo non toglie che l'operazione di Scorsese sia fondamentalmente corretta: non solo rievocare con strumenti narrativi un passato che è comodo scordare, ma anche fornirne un'interpretazione, magari attraverso l'iperrealismo e la metafora. Prima di lui tentò di farlo Michael Cimino con il suo "I cancelli del cielo": fiasco commerciale, certo, però esperimento ambizioso e generoso.
Credo che a un compito analogo sia chiamata oggi la letteratura, e specialmente la narrativa popolare in tutte le sue forme (fumetto incluso). Essa sola gode di una "audience" abbastanza vasta da farsi ascoltare e da ribaltare, se vuole, le idee acquisite. Mica che lo faccia sempre, però la potenzialità c'è. Dobbiamo a Oliver Stone, più che alla storiografia, se alla versione ufficiale dell'assassinio di John F. Kennedy non crede più nessuno. E dobbiamo essere grati a James Ellroy per la sua rilettura scomoda e puntigliosa della storia americana del dopoguerra. La narrazione "di genere" opera a livello profondo e di massa e, sola, riesce a reggere l'impatto di altre forme invasive di comunicazione. 


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