venerdì 18 gennaio 2019

Il grande silenzio [recensione]

*** L’articolo contiene spoiler ***

Chiariamo subito una cosa: Il grande silenzio è uno dei più grandi western girati, sia americani che italiani. Nel filone degli spaghetti viene unanimemente considerato nella Top Ten ed è da sempre elogiato dagli appassionati, anche da quelli di cinema in generale.
Sergio Corbucci, che pure scrisse e diresse quell’altro capolavoro di Django, riuscì all’epoca (siamo nel 1968) ad anticipare non solo gli stilemi del western all’italiana ma addirittura a capovolgerli totalmente, e nel modo migliore possibile. Possiamo dire che Il grande silenzio diventò uno spaghetti western anomalo ancor prima che venissero definiti, in modo consapevole, i tratti caratteristici (poi divenuti clichè) del genere.
Ribaltando le ambientazioni soleggiate, desertiche e polverose, e le classiche dicotomie banditi = cattivi e sceriffi = buoni, Corbucci porta sullo schermo una storia dove gli uomini di legge sono le carogne e i banditi sono dei perseguitati costretti a vivere di espedienti e nascosti sulle montagne, il tutto in un paesaggio sommerso nella neve, che il regista usa in modo eccellente facendolo diventare uno dei protagonisti.
In questo clima gelido ma allo stesso tempo rovente, dove i cacciatori di taglie sono affamati (di denaro) come lupi e si buttano senza pietà sui disgraziati fuorilegge che osano scendere in paese lasciando la sicurezza della montagna, spicca il personaggio di Silenzio. Interpretato da Jean-Louis Trintignant (al suo unico western) e nato, sembra, da un’idea di Marcello Mastroianni, Silenzio è un letale pistolero muto, un cacciatore di taglie che dà la caccia a chi si merita di morire e che si imbatte in una vendetta che probabilmente riteneva già compiuta. Suo nemico è Tigrero (Klaus Kinski), un bounty killer spietato e crudele, reso più straniante dal doppiaggio italiano e dal suo abbigliamento, infagottato com’è in una sciarpa e in una pelliccia da donna; Silenzio dovrà ucciderlo su commissione di una vedova (Vonetta McGee, qui alla sua prima apparizione).
Il grande silenzio non è quindi un western come tutti gli altri. Anticipando di alcuni anni I compari di Robert Altman, Corbucci inscena un dramma innevato ricco di violenza e di significato, con scene truci e sanguinolente che ben spiccano sul candido della neve. Snow Hill – in realtà Cortina d’Ampezzo, dove il film venne girato nell'inverno del 1967 – è quasi una ghost town, un villaggio da western crepuscolare, costantemente spazzata dal vento e dalle tormente di neve, tiranneggiata da Pollycut (un Luigi Pistilli viscido come un serpente) e tenuta sotto scacco da Tigrero e gli altri cacciatori di taglie.


Il personaggio di Silenzio è un’anomalia nel western e anche all’interno stesso del film: un pistolero muto, così chiamato perché «dopo che è passato, restano solo il silenzio e la morte», usa una pistola semi-automatica Mauser (quindi la vicenda è ambientata dopo il 1896) contro i cacciatori di taglie che in realtà dovrebbero stare dalla parte della legge. Ma a Snow Hill la legge non c’è, arriverà nella persona di Gideon Corbett – interpretato da Frank Wolff – uno sceriffo brontolone ma acuto che avrà il suo bel daffare contro Tigrero e la cricca di Pollycut.
Gli scenari innevati, dicevamo, aggiungono il tocco perfetto all’atmosfera lugubre e crepuscolare del Grande silenzio, caratteristica studiata attentamente da Corbucci nella sua idea di rivisitare il western italiano che ancora western italiano maturo non era.
Ma fin qui potrebbe essere una sorta di ordinaria amministrazione. Ciò che nel Grande silenzio fa ancor di più la differenza è invece il finale, che non solo smonta tutto quello che succede nel film ma smonta la consuetudine cinematografica. Quando, dopo averle prese dai cattivi, essere stato ferito in modo anche abbastanza grave, il protagonista/eroe è nel momento di rimettere le cose a posto e far trionfare la giustizia, Corbucci cambia le carte in gioco: niente happy ending, niente ripristino della legge e dell’ordine, niente di così consuetudinario e prevedibile: Tigrero farà fuori Corbett, la vedova e soprattutto Silenzio, dopo avergli sforacchiato le mani. Un finale che fece infuriare i produttori, che pretesero l’happy ending e lo imposero a Corbucci. Il buon Sergio, difendendo invece la sua scelta con i denti, girò appositamente un finale alternativo dove Silenzio e Corbett uccidevano Tigrero e i cacciatori di taglie, ma lo girò in modo così osceno che alla fine i produttori si arresero (questo finale è disponibile negli extra delle versioni in dvd del film).
E nacque così la leggenda del Grande silenzio, dove lo spaghetti western viene ribaltato ancor prima di rendersi conto di sé stesso, nonostante l'allora recentissimo boom di Sergio Leone (che, come sappiamo, fissò le leggi del genere), un'opera coraggiosa che andò contro le aspettative del pubblico ed ebbe addirittura il divieto di visione per i minorenni. Un lavoro magistrale ricco di significati e di scelte controcorrente che si mischiano sì a quelle di routine e stereotipate ma allo stesso tempo le rifiutano imponendone il loro contrario.

4 commenti:

  1. L'ho rivisto recentemente, all'interno di una mia personale retrospettiva del cinema di Kinski, e l'ho davvero apprezzato, notando molte più fonti di ispirazione per il fumetto francese "Durango" rispetto a "Django". Un film durissimo senza un solo briciolo di sole...

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  2. Capolavoro, assieme a Django.
    Ha ragione Lucius, film durissimo e senza un briciolo di sole.
    Non poteva esserci, in fondo, l'happy handing.
    Silenzio è un uomo che uccide altri uomini su commissione, come Tigrero uccide banditi per le taglie.
    E' un film senza eroi, decisamente :)

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    1. Happy ending come caspita l'ho scritto ahaha..sono fuso..

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