Il western si dimostra davvero, per l’ennesima volta, il genere per eccellenza. Dato per morto un innumerevole numero di volte, ha sempre saputo rialzarsi – magari a fatica –, barcollare, zoppicare, inciampare, ma alla fine ritornare a petto in fuori, testa alta e Colt spianata. Fino a sputare fuori un capolavoro come
American Primeval.
Nata dalla fantasia dello sceneggiatore di
Revenant, Mark L. Smith, questa miniserie da sei episodi è una boccata d’aria rigenerante per il western, come del resto sono stati recentemente più le serie tv che i film. In un West più vicino ai trapper che ai cowboy, più dirimpetto alla Guerra Civile che alle guerre indiane, si consumano le due vicende che sono in parte radicate nella vera Storia e in parte frutto di fantasia. Tutto comincia con l’arrivo a Fort Bridger di Sarah Rowell (
Betty Gilpin) e suo figlio, che vogliono e devono andare ad ovest alla ricerca del padre del bambino. Prima si legano ad una carovana di mormoni diretta in Utah ma quando questa viene massacrata proprio da una milizia della loro stessa gente, Sarah e figlio vengono salvati da Isaac Reed (
Taylor Kitsch), un burbero e silenzioso cacciatore. Da quel momento i due filoni della storia si divideranno per procedere parallelamente: da un lato l’ostinata e difficilissima traversata del continente della donna, che per giunta è anche ricercata da un nugolo di cacciatori di taglie; dall’altro, l’incrocio sanguinario tra la sete di potere (e di dominio) dei mormoni guidati dal fanatico Brigham Young (interpretato dal sempre inquietante Kim Coates) e protetti dalla milizia, gli indiani Paiute e Shoshoni e la cavalleria americana.
American Primeval tocca innanzitutto un’epoca della storia del West forse mai presa in considerazione dalla cinematografia: è il 1857 e il massacro della carovana è mutuato da quello realmente avvenuto proprio quell’anno a Mountain Meadows da parte di “soldati mormoni” travestiti da indiani (e su cui ancora oggi non è mai stata fatta assoluta chiarezza), a cui seguì una specie di guerra tra i religiosi e l’esercito americano, ansioso di fermare il progetto “indipendentista” di Young, tra l’altro ben esposto nella miniserie. Ma ovviamente
American Primeval va oltre: pur dovendo inevitabilmente acconsentire a qualche stereotipo, la storia si focalizza molto sulla sanguinarietà della religione, sui conflitti morali, sullo scontro di culture come quella pellerossa (apparentemente l’unica a subire le peggiori conseguenze), ma anche sulla speranza e sull’amore.
La sceneggiatura fa un lavoro impressionante: il ritmo è martellante, in sei episodi (della durata media di 50 minuti) non ci si ferma neanche per un istante, i momenti di riflessione, di dialogo statico, di confronto civile sono ridotti all’osso e ogni pochi minuti succede sempre qualcosa, quasi senza soluzione di continuità. Un enorme pregio che fa scorrere gli episodi uno dietro l’altro, e se non si tiene il conto ci si potrebbe ritrovare alla fine senza neanche accorgersene.
I personaggi fanno tutti un lavoro mostruoso, a cominciare ovviamente da Betty Gilpin, nuovissima nel western, una donna tenace, dura come l’acciaio, orgogliosa ma con il cuore aperto ad una vita migliore; poi Kitsch (anche lui nuovo nel genere) che è taciturno ma quasi invincibile, rude ma in realtà pienissimo di sentimento, solitario al limite del mutismo ma di cui vedremo il perché a poco a poco; c’è la coppia di sposini mormoni Abish (Saura Lightfoot Leon) e Jacob Pratt (Dane DeHaan, lo abbiamo visto nei panni di Billy the Kid nel film The Kid) e la loro storia in caduta tra la follia di lui e l’incertezza di lei; ci sono i capi della milizia; c’è Jim Bridger (Shea Whigham), gran personaggio sarcastico e simpaticissimo; c’è il capitano della cavalleria (Lucas Neff), altro grandissimo personaggio molto diverso dal solito soldato cercatore di gloria dei western classici, anzi; poi c’è anche la piccola Due Lune, l’indiana muta che accompagna Sarah, Isaac e il figlio, e ci sono gli indiani Shoshoni e gli indiani Paiute, le guide, i cacciatori di taglie, il folle Young e il suo aiutante… E pur focalizzandosi molto sulle donne,
American Primeval ha l’enorme pregio di non fossilizzarle nelle supereroine imbattibili resistenti alle botte e alle pallottole che vanno di moda oggi ma invece di renderle umane, orgogliose, e forti quando serve. Insomma, una pletora di personaggi per un affresco western di enorme impatto.
E se storia e personaggi hanno il loro perché, gran parte del lavoro di
American Primeval lo fa l’intero aspetto visivo: il regista Peter Berg e lo sceneggiatore Mark Smith ricreano un West così reale da far male agli occhi. Violenze esplicite e inaudite (ci sono scalpature, mutilazioni, spari in faccia, ecc.) puntellano i sei episodi (stranamente l’aspetto sessuale è quasi totalmente lasciato fuori), mostrando quanto la vita sulla Frontiera americana fosse di una durezza difficilmente comprensibile da noi oggi. Il pericolo e la morte sempre in agguato, e sopra di esse il manto della natura selvaggia, qui mostrata in tutto il suo splendore attraverso riprese tra i più vari ambienti come la pianura spoglia, le foreste innevate, gli intrighi di rocce, gli strapiombi. Ma non aspettatevi il verde rigoglioso o l’azzurro cielo: la fotografia di
American Primeval è ghiacciata, freddissima, aumentando la sensazione di violenza e di freddo, persino negli ambienti che dovrebbero essere assolati. In effetti in
American Primeval l’ambientazione gioca un grande ruolo, a cominciare per esempio da Fort Bridger, un rudissimo avamposto popolato da ubriaconi, cacciatori di pellicce, indiani, soldati, mormoni, sbandati, cacciatori di taglie e scout di ogni nazionalità, immerso nel fango perenne. Ambientazione intesa anche come costumi, ovviamente: la cura nei dettagli è lontana anni luce dalle raffazzonate riproduzioni del West messe in mostra nei western classici: in
American Primeval le armi sono correttissime, i costumi curatissimi, le scenografie ricostruite con la massima cura, tanto che credo ci sia stato un lavoro di maestranze veramente imponente.
In
American Primeval, in genere, comunque, tutti sono sporchi e cattivi, l’atmosfera è cupa e oppressiva e la speranza e l’amore, se ci sono, sono ben nascosti. Non si fanno sconti, non esiste il buonismo o il politically correct, né la moderazione o tanto meno la diplomazia.
Ma ce l’avrà qualche difetto questa serie tv? Forse sì. Gli stereotipi un po’ retorici sugli indiani sono sempre quelli, ormai lasciano il tempo che trovano ma è anche vero che, a meno di non estremizzarli al massimo, quelli sono e quelli resteranno. Forse i personaggi hanno un livello di profondità un po’ ridotto ma personalmente, a cominciare dal fatto che
American Primeval non è un film drammatico dove si parla soltanto, lo ritengo più un pregio che un difetto, visto che comunque l’essenziale viene detto (o non detto) e tutti i personaggi funzionano meravigliosamente bene. Infine, forse il difetto maggiore per chi è sensibile è l’altissimo tasso di violenza esplicita, che potrebbe senz’altro disturbare. Per quanto mi riguarda, lo ritengo semplicemente una realtà fattuale per un lavoro che fa del realismo il suo punto di forza.
Arrivando alle conclusioni, per me
American Primeval è un capolavoro. Avventura e azione in ambiente western, con un occhio alla Storia, un altro ai dettagli, un altro ancora ai personaggi, su una sceneggiatura che non lascia un attimo di respiro, dipinta da una regia con vari accorgimenti stilistici d’impatto (qualcuno su internet ha citato la pioggia di frecce, che mette veramente paura!). Cosa chiedere di più? Ah, c’è pure Betty Gilpin… Il capolavoro è servito.